L’obesità e la bulimia evidenziano la dimensione patologica del mito del mercato, l’anoressia invece esalta il mito dell’immagine, facendo del corpo una sorta di marca sociale inedita.
Gli obesi e le bulimiche vivono il dramma di una spinta a riempire un vuoto che non si estingue mai, mentre l’anoressica si identifica con questo vuoto, lo incarna, lo custodisce come la cosa più preziosa al mondo.
Nelle storie dei pazienti è frequente l’immagine della bambina buona, brava, compiacente e amabile che nell’adolescenza si ribalta nel suo contrario, ovvero in un’ostinata contestatrice di tutto ciò che l’altro genitoriale fa o dice.
La separazione è una manovra essenziale, vitale e indispensabile per la definizione dell’identità e per la stabilità psichica. I genitori devono essere capaci di lasciare andare la mano con la quale hanno tenuto stretti a sé i loro figli nel corso dell’infanzia.
Se la stretta non si allenta, l’anoressia diviene una manovra patologica di separazione dalla presa soffocante dell’altro, una separazione per opposizione, senza dialettica e difficilmente sostenibile, perché vorrebbe negare ogni forma di dipendenza.
La scelta anoressica in adolescenza sembra voler ribaltare i rapporti di forza, rovesciare la sua impotenza in una posizione di potere attraverso il rifiuto del cibo, attraverso la forza speciale del ricatto mortale rivolto all’altro:
- privandomi del nutrimento sfido l’altro, lo provoco, lo angoscio, lo getto nell’impotenza
Un altro aspetto importante è il rapporto con l’altro sesso, infatti l’adolescenza coincide anche con l’esperienza della delusione d’amore che può segnare una battuta d’arresto.
Il dolore può implicare una reazione di rifiuto, di chiusura, di sfiducia profonda nei confronti dell’altro e di disprezzo per il proprio corpo. L’anoressia-bulimia può seguire una relazione amorosa finita male, come un’occasione che la scatena ma non che la causa.
Anoressia e Bulimia sono le due facce della stessa medaglia, e questa continuità appare innanzitutto nell’evoluzione stessa della «malattia», infatti l’esordio tende solitamente ad assumere forme anoressiche:
- rifiuto del cibo
- ossessione per l’immagine del proprio corpo
- iperattivismo
- calo ponderale significativo
- dispercezione della propria immagine corporea
- amenorrea
Il soggetto è felice nel senso che sperimenta la sua anoressia come un trionfo, un governo sul corpo pulsionale; l’anoressia gli garantisce un controllo estremo, non solo sulla fame ma anche sulle emozioni e sui rapporti con gli altri.
L’anoressia non si presenta come una malattia, come un sintomo di cui il soggetto avverte il peso e di cui vorrebbe liberarsi, ma come una soluzione, infatti la prima fase della malattia è il tempo dell’entusiasmo narcisistico, dell’orgoglio, dell’onnipotenza:
- Il soggetto vince la fame, domina le sue pulsioni, non domanda nulla ma basta a se stesso, è fiero della sua magrezza oscena che esibisce
Questa «luna di miele con lo specchio» è destinata a durare poco perché banalmente non si può vivere senza mangiare, perciò puntualmente alla determinazione narcisistica dell’anoressia seguirà così la disperazione bulimica.
La bulimia è infatti una sorta di fallimento del progetto anoressico. Il sentimento affettivo predominante della bulimica è segnato da una profonda depressione, indegnità morale, inadeguatezza e senso di colpa.
La fase bulimica della malattia prevede:
- l’abbuffata che travolge la diga anoressica
- il preservare l’immagine incorrotta del corpo-magro attraverso il vomito
- un senso mortificante di vergogna e inadeguatezza
- il sentirsi come una pattumiera, anche perché il mantenimento del corpo-magro avviene solo attraverso una finzione, ovvero il vomito
Il mangiare bulimico non è un godere di ciò che si mangia, ma un godere dell’attività infinita del mangiare stesso. Non c’è tanto il desiderio di mangiare quanto una spinta compulsiva a ripetere infinitamente l’atto del mangiare.
L’anoressia-bulimia si presenta spesso come l’effetto del cattivo funzionamento genitoriale, con diverse varianti:
- una madre che non ha altri oggetti di passione al di fuori della figlia
- una madre che non riconosce al padre la dignità maschile, lo espelle dalla scena familiare e ne tratteggia gli aspetti più negativi
- un padre che ama la figlia di un amore che sfuma nell’innamoramento, ne fa la sua fidanzata ideale, instaura con lei un rapporto a due
- un padre che ignora la figlia, la trascura, si dimostra troppo preso dalle sue faccende, apparendo sempre lontano, assente, distratto e egoista
Sulla giovane donna perciò pesano due possibilità di sofferenza opposte:
- essere divorata
- essere abbandonata
In entrambi i casi l’anoressia può divenire una soluzione in grado di preservarne la soggettività attraverso il senso di autonomia che il rifiuto alimentare illusoriamente procura. Dietro lo scontro con il cibo, la persona è legata strettamente, per troppa presenza o distratta assenza, a uno dei genitori.
In tutti i casi la distanza simbolica tra il soggetto e il genitore è saltata, travolta da un eccesso di presenza o da un’assenza.
Massimo Recalcati intende emancipare i disturbi alimentari da semplici disfunzioni comportamentali della macchina-corpo, mettendo in rilievo il carattere relazionale di questi disturbi. Sono molto frequenti infatti situazioni di esordio dell’anoressia legate a un lutto, a una perdita di un oggetto d’amore significativo, oppure a una cattiva o traumatica iniziazione al discorso amoroso.
Se l’anoressia è un congelamento affettivo, la cura dell’anoressia consisterà in una sua rivivificazione. Un segno importante di guarigione è infatti il riattivarsi di un interesse libidico e affettivo verso l’altro sesso o verso il mondo delle relazioni affettive.
L’anoressica dice «no» al cibo perché non si accontenta che le venga dato solo ciò che l’altro ha, ovvero i beni materiali. Il rifiuto del cibo è la manifestazione del rifiuto della fiducia nell’altro che non ha saputo trasmettere il segno del suo amore.
L’anoressia si presenta come una difesa dai rischi del legame con l’altro, e come una manovra per suscitare nell’altro quelle attenzioni e quella presenza che non ha saputo dare.
Non possiamo procedere nella cura mirando all’estirpazione del sintomo, togliendo così al soggetto ciò che ha di più prezioso. La cura non è una battaglia, un braccio di ferro per fare mangiare il soggetto.
Noi non dobbiamo puntare a fare tornare l’appetito, noi dobbiamo puntare a far tornare il desiderio. Non bisogna incalzare il sintomo, ma lavorare invece perché il desiderio si scongeli, torni a vivere.
Bibliografia
- Carbone P. (2010), L’adolescente prende corpo, Il pensiero scientifico editore
- Lanyado M., Horne A. (2003), Manuale di psicoterapia dell’infanzia e dell’adolescenza, Franco Angeli, Milano
- Lemma A. (2011), Sotto la pelle, Milano, Raffaello Cortina Editore
- Recalcati M. (2006), Anoressia, bulimia, obesità, Bollati Boringhieri